155 research outputs found

    Forging a maritime alliance: Norway and the evolution of american maritime strategy 1945-1960

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    The study examines the development of American maritime interests in the High North in the period from 1945 to 1960 with particular emphasis on the Eisenhower period and Admiral Arleigh Burke's tenure as Chief of Naval Operations. Specifically, it traces the reorientation of US concern about Soviet naval developments from the Baltic area to the Northern Fleet area after 1955. It explores how, in the latter half of the 1950s, Norway acquired a central role in US defence strategy as the US Navy - partly in response to the weakening of British naval power - moved into the Northeast Atlantic. By 1960 Norway was providing navgational support for the first generation of US nuclear-fuelled ballistic missile submarines and was playing a key part in the nuclear-oriented anti-submarine strategy of the US Navy. In 1960 the process which had begun in the late 1940s when the US increasingly came to assume Britain's traditional role as Norway's principal source of external support had been largely completed

    United Nations peacekeeping at at crossroads : The challenge of management and institutional reform

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    After much positivism in regards to UN efficiency in peacekeeping missions up to 1992, an increased pessimism came during 1993. Many operations that seemed promising started to go sour. What went wrong? Mats Berdal argues that besides the fact that the international system is dominated by states interests, the UN have an inability to adapt to changing circumstances, and has an urgent need for reform

    Peacekeeping in South Sudan is a race against time for the UN

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    In the context of fraught geopolitical relations following Russia’s war in Ukraine, the UN Security Council’s decision to renew the mandate of the Mission in South Sudan is a major achievement. But the potential for escalating violence in the country make the Mission’s future uncertain

    The United Nations at fifty: It's role in a global security

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    Revisiting the Responsibility to Protect and the Use of Force

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    Efforts to operationalize the Responsibility to Protect (R2P) continue to encounter resistance from key member states. Where it matters most, among vulnerable civilian populations caught up in war, the R2P appears to be making scant difference. Rising geopolitical tensions have added to a growing sense of pessimism among R2P advocates. Unsurprisingly, the most contentions aspect of the R2P concept continues to revolve around the question of the use of force for humanitarian purposes. It is a subject on which states, for an admixture of historical and political reasons, remain deeply divided. Nonetheless, as a politically significant norm, the R2P has come to command growing support from states, even though the degree to which the R2P norm has been truly internalized across international society varies greatly

    Il mito dello “spazio non governato” – alcune implicazioni per lo state-building e la sicurezza umana

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    L’ansia dell’Occidente riguardo all’esistenza di “spazi non governati” che costituiscono una piattaforma di lancio per attacchi terroristici o per attività criminali che ledano Stati Uniti e interessi occidentali è una conseguenza diretta dell’11 settembre 2001. Lo studio e la ricerca di risposte alle sfide poste da questi spazi, tuttavia, possono essere tracciati più indietro nel tempo e ricondotti ai dibattiti sul “fallimento dello stato” (state failure) degli anni novanta, quando molti analisti e politici occidentali sono arrivati a considerare la “costruzione” di stati liberali moderni secondo i dettami weberiani (state-building) come la panacea al flagello delle guerre civili e dei conflitti del post-Guerra fredda. In realtà, nonostante le preoccupazioni sugli “stati falliti” negli anni novanta e quelle sugli “spazi non governati” dopo gli eventi del 2001 possano essere considerate diverse, la diagnosi del problema da affrontate si basa su presupposti fondamentalmente simili. Sia la nozione di stato fallito che quella di spazio non governato riflettono, più o meno implicitamente, ciò che può essere sommariamente riassunto come la concezione weberiana dello stato, delle fondamenta giuridico-razionali dell’autorità legittima e delle fondamenta stesse dell’ordinamento politico. Alla base di questa argomentazione c’è la definizione dello stato come entità che esercita il “monopolio dell’uso legittimo della violenza per mantenere l’ordine” all’interno di un territorio geograficamente circoscritto su cui afferma anche il monopolio della governance e della produzione di norme e regole. Con questi poteri, lo stato è in grado di ottenere legittimità attraverso la fornitura di beni pubblici – sicurezza e protezione in primis. Nel caso in cui queste condizioni vengano indebolite – sia per effetto di una guerra o di un processo di erosione endogeno – la legittimità si disperde, l’ordinamento politico si disintegra e lo stato può, in extremis, crollare, lasciandosi dietro degli spazi non governati. I processi esogeni di state-building, come quello tentato in Afghanistan tra il 2003 e il 2014, possono quindi essere visti come un tentativo da parte di attori esterni di costruire o ricostruire uno stato per impedire un’inesorabile discesa verso l'”ingovernabilità” o, in senso più positivo (come sarebbe stato nella narrativa dominante negli anni novanta), per contribuire a gettare le basi di una pace duratura e di un aumento della sicurezza umana. In ogni caso, lo state-building così concepito si basa su una comprensione meccanicistica e tecnocratica del concetto di fallimento statale. Per riprendere le parole di una nota filastrocca inglese, lo scopo dello state-building è quello di “put Humpty Dumpty back together again“, cioè cercare di ottenere un uovo da una frittata. Per quanto sia un’idea superficialmente accattivante, nella pratica gli ultimi tre decenni di state-building in contesti post-conflitto hanno messo in rilievo i limiti di questa visione dello stato (e quindi degli obiettivi dei processi di state-building), soprattutto in società e regioni dilaniate da guerre e profonde divisioni, ma anche storicamente e culturalmente eterogenee. Più nello specifico, l’esperienza ha dimostrato che il semplice concetto di spazio non governato – nonostante sia un termine suggestivo, capace di evocare l’idea di un mondo “alla Mad Max” fatto di barbarie, caos e anarchia – è di fatto inutile, sia analiticamente che in termini puramente empirici. Nella realtà, infatti, quelli che i politici occidentali spesso descrivono come spazi non governati – come il confine tra Pakistan e Afghanistan, il Corno d’Africa, il Sahel o la frontiera tra Venezuela e Colombia – non sono privi di governance, anche se si trovano in aree dove l’autorità del governo centrale è chiaramente debole e frammentata. Per poter meglio riflettere su quali siano le implicazioni per la sicurezza umana e i processi di state-building è quindi necessario riconsiderare l’impatto – complesso e trasformativo – che le guerre e i conflitti violenti hanno sulle società. Per quanto distruttiva in termini umani e materiali, la guerra rappresenta anche un fattore di cambiamento che serve a riordinare i rapporti di potere e di influenza all’interno di uno stato o di una società. Questo è uno dei motivi per cui l’idea che gli stati afflitti da conflitti e violenza crollino semplicemente nel caos o si trasformino in spazi non governati nasconde una realtà molto più complessa. Come è stato ripetutamente dimostrato da ricerche etnografiche e altri studi sulle zone di conflitto, coloro che vivono in stati fragili o dilaniati dalla guerra – cioè coloro che vivono in condizioni di insicurezza persistente e violenza endemica, dove le istituzioni formali dello stato e del governo sono deboli o inesistenti – non sono indifferenti alle circostanze in cui si trovano. Le élite politico-militari, i cosiddetti power-broker, i gruppi di interesse economico, la società civile (compresi i commercianti, le imprese locali e i gruppi di donne), e le persone ordinarie impegnate a sopravvivere: tutti si adattano e trovano il modo di adeguarsi alle nuove realtà create dalla guerra e dalla debolezza statale. Alcune delle strategie di adattamento possono certamente essere di natura predatoria, finalizzate all’arricchimento personale attraverso la riscossione di rendite criminali e/o lo sfruttamento della popolazione civile per mezzo di saccheggio e varie forme di tassazione illegale e coercitiva. E infatti, in alcuni casi, gli interessi e le attività criminali delle élite al potere dipendono in modo simbiotico dal mantenimento dello status quo, cioè dalla persistente debolezza dello stato e dalla mancanza di istituzioni funzionanti e responsabili. Marimakile Kiakimuakisubua si è unita ai Mai-Mai/FDP a seguito di un attacco subito da parte delle FDLR. (Fonte: Flickr/Matchbox Media Collective.) L’adattamento può però avvenire anche per mezzo di strategie che non sono di per sé predatorie, ma riguardano l’adozione delle misure necessarie per sopravvivere e affrontare un mondo in cui lo stato non fornisce sicurezza, regole o servizi di base. La risposta di molte comunità locali alla fragilità statale e all’insicurezza è spesso stata quella di creare accordi informali che nel tempo si sono cristallizzati in sistemi di “governance senza governo” (anche a livello regionale) creando sistemi in grado di fornire una base per accordi politici più duraturi grazie alla maggiore legittimità di cui godono e alla loro capacità di soddisfare meglio il bisogno di sicurezza umana delle popolazioni. Come osservato da René Lemarchand nel 2013, nelle province orientali della Repubblica Democratica del Congo “per quanto disomogenei siano i risultati… alcuni strumenti informali di governance sembrano essere molto più promettenti delle istituzioni ‘democratiche’, spesso e ampiamente corrotte, create attraverso processi elettorali”. Allo stesso modo, altri casi hanno evidenziato l’emergere di ordinamenti politici e sistemi di governance alternativi in zone di conflitto. In Afghanistan, ad esempio, Ashley Jackson ha documentato come la battaglia dei Talebani per il sostegno popolare sia diventata a partire dal 2014 “una sofisticata struttura di governance, che comprende la gestione di scuole, cliniche, tribunali, tasse e altro ancora”. Uomini e ragazzi fanno un selfie con un Talebano a Kabul. (Fonte: Mohammad Ismail.) I sistemi di governance che emergono in risposta a condizioni di guerra o di grave debolezza dello stato non devono essere necessariamente trattati come la base più promettente per la costruzione della pace e per soddisfare le esigenze di sicurezza umana, anche se spesso vengono romanticizzati come processi “organici”, “dal basso” e “autentici”. Purtroppo, anche queste strategie locali di adattamento al fallimento dello stato e all’insicurezza possono essere, e spesso si sono dimostrate, predatorie, violente e illiberali. Il più delle volte, i calcoli e le motivazioni degli attori locali sono complessi e ambivalenti, rispecchiano particolari circostanze e resistono ai tentativi di classificazione o etichettatura – una realtà che si evince chiaramente dagli studi sulla guerra in Afghanistan come percepita dalle popolazioni locali. Il cardine della questione – e una lezione importante per i policy-maker – è che i conflitti violenti così come la debolezza statale non devono essere interpretati come mere manifestazioni di anarchia, ma guardati come particolari economie politiche di guerra e pace generatesi a partire da interessi diversi e dall’utilità funzionale che alcuni vedono nello status quo. In altre parole, ciò che deve essere analizzato e meglio compreso sono i sistemi alternativi di potere, influenza e attività economica che si materializzano nelle zone di conflitto e, ancora più nello specifico, l’interazione tra le economie locali di guerra e le agende politiche degli attori principali. Questo non è un compito facile, anche perché le economie politiche mutano e si evolvono rapidamente in risposta a stimoli interni ed esterni (compresi i cambiamenti a livello regionale e geopolitico). Inoltre, nonostante sia migliorata la capacità analitica degli apparati governativi occidentali, la burocrazia e la limitata capacità di concentrazione politica dei decision-maker complicherà sempre il compito di tradurre le analisi in strategie politiche significative. Per tutte queste ragioni, i policy-maker che desiderino contribuire a creare le condizioni per aumentare la sicurezza umana nelle zone di conflitto non hanno altra scelta se non quella di interessarsi alla politica economica di questi stati, società e regioni. Come osservato da Goodhand, Suhrke e Bose, il valore dell’analisi dell’economia politica sta nel “decostruire e denaturalizzare l’idea di stato weberiano, sfumando le distinzioni binarie tra stato e non-stato, legittimo e non-legittimo, e mettendo in luce le reti, coalizioni e risorse materiali che sostengono o minano lo stato”. Anche se un’analisi di questo tipo è difficilmente in grado di fornire risposte chiare – e men che meno politicamente digeribili – su come, e se, intervenire, essa può indirizzare i decision-maker verso il tipo di domande che devono essere poste. Tra queste: in che modo guerra e violenza protratta hanno contribuito all’emergere di reti informali? Quanto sono resistenti queste reti? Nei cosiddetti “stati post-conflitto”, dove si trova il vero potere – cioè quelle strutture di privilegio e clientelismo che si sono sviluppate durante il conflitto? Quali pratiche e attori informali possono essere riconosciuti e istituzionalizzati senza compromettere la stabilità politica a lungo termine? Qual è il rischio che le iniziative esogene di state-building, invece di permettere una maggiore sicurezza umana, si limitino a consolidare il potere e l’influenza di attori interessati al mantenimento di stati deboli e instabilità? In questo breve articolo, si è cercato di evidenziare come le guerre civili e la debolezza statale trasformino le fondamenta sociali, economiche e politiche del potere all’interno delle società, portando spesso alla nascita di ordinamenti politici ed economici alternativi in cui il potere effettivo è nelle mani di reti informali di privilegio e clientelismo. Ne consegue che il rafforzamento degli stati dilaniati dalla guerra e l’aumento della sicurezza umana non dovrebbero mai essere interpretati come una mera questione di costruzione di capacità istituzionali. La vera sfida consiste nel trovare e promuovere efficacemente un accordo politico che rifletta e tenga conto della distribuzione – formale e informale – del potere, dell’influenza e delle risorse all’interno della società. In questo caso, il termine “accordo politico” non deve però essere confuso con la firma ufficiale di un accordo di pace, anche se idealmente anche questo dovrebbe essere basato su una comprensione comune e meno formale delle norme che forgiano le interazioni tra individui e gruppi sociali, e soprattutto all’interno delle élite che controllano, organizzano e regolano l’accesso al potere e alle risorse nella società. Se raggiungere un accordo politico significa quindi concordare su questo tipo di “norme”, gli attori esterni impegnati in processi di peace- e state-building dovrebbero spostare la loro attenzione dalla capacità istituzionale in quanto tale alle strutture di potere e di influenza presenti nella società. Ciò, a sua volta, comporta necessariamente l’adozione di una definizione più ampia di “stato”, che includa gli attori e le reti informali nati durante il conflitto e che talvolta hanno beneficiato della persistente debolezza statale. Questo passaggio è fondamentale poiché per costruire legittimità all’interno di una società post-conflitto la semplice capacità istituzionale non è sufficiente: serve un accordo politico funzionante e inclusivo – un accordo, cioè, in cui attori chiave ed élite si sentono coinvolti a lungo termine.  In altre parole, concentrarsi esclusivamente sulle istituzioni formali e la costruzione dell’apparato statale può distogliere l’attenzione dall’importanza di considerare le relazioni tra i diversi gruppi di attori e la loro esperienza dello stato, compreso il loro senso di disaffezione politica ed economica, di marginalizzazione o di sofferenza. Tenere questi fattori in considerazione è anche la chiave per affrontare il lascito di anni di diffusa insicurezza umana.    Per saperne di più Goodhand, J. Suhrke, A. e Bose, S. (2016) “Flooding the lake? International democracy promotion and the political economy of the 2014 presidential election in Afghanistan”, Conflict, Security & Development, 16:6. Disponibile su: https://doi.org/10.1080/14678802.2016.1246142 Jackson, A. (2018) “The Taliban’s Fight for Hearts and Minds”, Foreign Policy, 12 settembre 2018. Disponibile su: https://foreignpolicy.com/2018/09/12/the-talibans-fight-for-hearts-and-minds-aghanistan/ Lemarchand, R. (2013) “Reflections on the Recent Historiography of Eastern Congo”, The Journal of African History, 54:3. Disponibile su: https://doi.org/10.1017/S002185371300073X Menkhaus, K. (2007) “Governance without Government in Somalia: Spoilers, State Building and the Politics of Coping”, International Security, 31:3. Disponibile su: https://www.jstor.org/stable/4137508 — Published in: Governance e istituzioni al di là dello stat

    Corporate Security Responsibility: Towards a Conceptual Framework for a Comparative Research Agenda

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    The political debate about the role of business in armed conflicts has increasingly raised expectations as to governance contributions by private corporations in the fields of conflict prevention, peace-keeping and postconflict peace-building. This political agenda seems far ahead of the research agenda, in which the negative image of business in conflicts, seen as fuelling, prolonging and taking commercial advantage of violent conflicts,still prevails. So far the scientific community has been reluctant to extend the scope of research on ‘corporate social responsibility’ to the area of security in general and to intra-state armed conflicts in particular. As a consequence, there is no basis from which systematic knowledge can be generated about the conditions and the extent to which private corporations can fulfil the role expected of them in the political discourse. The research on positive contributions of private corporations to security amounts to unconnected in-depth case studies of specific corporations in specific conflict settings. Given this state of research, we develop a framework for a comparative research agenda to address the question: Under which circumstances and to what extent can private corporations be expected to contribute to public security
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